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«Matti», quindi violenti. O no?

La cronaca ci sta spesso obbligando a una riflessione complessiva sul rapporto tra psichiatria e violenza.

Per prima cosa è importante interrogarsi su quale sia realmente il legame tra malattia mentale e violenza.

Come dimostrato da diversi studi, i tassi di comportamenti violenti tra pazienti con disturbi gravi risultano sovrapponibili a quelli di persone senza disturbi psichici.

In Italia sono accolte e trattate nei servizi pubblici di salute mentale più di 800mila persone l’anno, alcune affette da disturbi gravissimi. Queste persone, pur affette da disturbi psicotici, ideazioni deliranti o allucinazioni continuative, non fanno male a nessuno se non a volte a se stessi.

La violenza possiede una traiettoria separata dalla psicopatologia, seppure in alcune situazioni a essa adiacente.

Una persona può mettere in atto comportamenti “folli” indipendentemente dalla presenza di una patologia psichica, a meno di non assumere che ogni comportamento incomprensibile sia di fatto un segno di patologia mentale, tornando indietro di un centinaio di anni, quando il mandato della psichiatria appariva connesso al controllo sociale.

Risulta importante perciò non limitare all’ambito della salute mentale la riflessione sulla violenza, sebbene psichiatria, psicologia e psicoanalisi abbiano costruito, ognuna con la sua sensibilità, modelli interpretativi del comportamento a oggi imprescindibili.

Il messaggio che connette persone affette da un disturbo psichico a gesti violenti rischia di essere stigmatizzante e di esporre un gran numero di persone sofferenti a gravi discriminazioni.

Dimentica inoltre tutti quei determinanti del comportamento umano individuali (l’assetto etico, la struttura personologica, il riconoscimento dell’altro, la consapevolezza del valore, le possibili conseguenze dell’atto) e sociali (deriva sociale, condizioni economiche disagiate…) che filosofia, antropologia, sociologia, ma anche arte e letteratura hanno ben evidenziato e che non sono parte di un disturbo psichico.

Il rischio è che, identificando semplicisticamente il disturbo psichico come causa principe di tali comportamenti, si eviti di considerarne altre, spesso più rilevanti, proteggendo la società nel suo complesso dall’effettuare una riflessione più ampia sulla sua struttura socio-antropologica.

C’è il rischio soprattutto di eliminare il concetto di male, minando il processo di attribuzione di responsabilità, centrale per il riconoscimento di quanto agito e primo passo di un possibile riscatto. […]

Sicuramente molto si potrebbe fare perché i servizi psichiatrici italiani possano avere quella dotazione di organico che aiuterebbe ad attuare pienamente la loro mission, implementando offerte che attualmente sono carenti, soprattutto in alcune aree geografiche. Ma il tema reale è che i servizi per la salute mentale, e i loro operatori, rischiano di essere lasciati da soli e in prima linea a cercare di fornire una risposta che va invece affrontata coinvolgendo saperi, servizi e agenzie diverse, perché molto numerosi sono i fattori che possono intervenire in fatti di cronaca anche tragici.

GIOVANNI MIGLIARESE

Psichiatra Direttore Sc Lomellina Asst Pavia

Avvenire – 8 dicembre 2022

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